CAPONATA DI MELANZANE

Capunata di milinciani

CAPONATA DI MELANZANE

Capunata di milinciani

Storia

Fra i piatti più rappresentativi e celebrati della cucina palermitana vi è, certamente, la caponata, la cui genealogia consente d’intraprendere, idealmente, un lungo viaggio nel Mediterraneo.

In esso la Sicilia, crocevia di popoli, pratiche e immaginari, nei secoli si è affermata come laboratorio gastronomico permanente in cui la combinazione e la stratificazione multiculturale di ingredienti, ricette e tecniche ha prodotto una cucina riconoscibile, più o meno codificata.
L’etimologia stessa della caponata mostra svariate possibilità interpretative: alcuni riconducono il suo nome al verbo greco capto-captos (tagliare), altri termine latino caupona (taverna), con riferimento alla salsina agrodolce che in quei luoghi i marinai acquistavano per inumidire e insaporire la propria galletta, altri ancora al pesce lampuga, chiamato capone in Sicilia, o alla parola di origine iberica caponada. Gli svariati tentativi di ricostruzione storica testimoniano l’urgenza, sul piano della ricerca, di rintracciare l’origine fondativa di un piatto che però vive nella dinamica stessa delle sue varianti, nel tempo e nello spazio. Basti pensare che nella sola Sicilia si contano almeno 36 diverse ricette di caponata. Una costante, al variare degli ingredienti principali della ricetta nel corso dei secoli, è la presenza di “piccoli pezzi vari” di verdura, pesce o carne conditi con la caratteristica salsa agrodolce. L’esistenza di piatti molto simili in tutto il Mediterraneo induce a ipotizzare, quale comun denominatore, non un ingrediente in particolare ma una tecnica di cucina, la dadolata, i cui componenti erano armonizzati e conservati, nelle loro proprietà, dall’agrodolce. Di origine persiana, questa salsa venne introdotta in Sicilia e in Spagna dagli arabi così come le melanzane, consumate fritte o bollite per lo più dai ceti popolari durante il Medioevo e la cui presenza nei ricettari nobili avverrà timidamente solo a partire dal XVI secolo. L’agrodolce, generalmente realizzato con aceto e miele, acquisì in Sicilia un carattere marcatamente popolare grazie alla sostituzione di quest’ultimo con lo zucchero, meno caro. Furono sempre gli arabi a introdurne la coltivazione della canna, diffusa soprattutto nella Conca d’Oro già dal 945, e a favorirne un uso innovativo, che anticiperà di quasi due secoli la sua applicazione culinaria nel resto d’Europa.
La prima attestazione della caponata come piatto codificato si ha con l’Ethymologicum Siculum, pubblicato a Messina nel 1759: alla voce dedicata si legge «piatto fatto di cose varie». L’indeterminatezza degli ingredienti che lo compongono suggerisce, ancora una volta, che il termine per lo più indicava un tipo di preparazione e non un piatto specifico. È noto infatti come anche durante la dominazione spagnola nelle tavole nobili venisse consumato un piatto unico, composto da pesce (molto spesso il capone), verdure e pane e condito con una salsina agrodolce, assimilabile a un parente stretto della nostra caponata. La comparsa della melanzana come ingrediente tipico, anche se non necessariamente protagonista, è databile alla fine del Settecento. Già Vincenzo Mortillaro, marchese di Villarena e studioso di cose siciliane, nel Nuovo dizionario siciliano-italiano (1838-1844) ne indicava la presenza nella preparazione. Successivamente, nel suo Vocabolario siciliano-italiano del 1860, Antonino Traina descriveva la caponata come «un manicaretto ov’entra del pesce, petronciani [nome per indicare una tipologia di melanzane] o carciofi ed altri condimenti, e si mangia per lo più in freddo». Traina non forniva dunque una ricetta definita, in quanto già ne circolavano diverse varianti; fra di esse, la versione più completa prevedeva l’uso di melanzane, carciofi, sedano, peperoni, olive, aglio, cipolla, capperi, sale e olio, ai quali potevano essere aggiunti polipetti, pesce spada, aragoste e mandorle tritate. A completare il piatto, l’immancabile sapore agrodolce del sugo di pomodoro arricchito di aceto e zucchero. La caponata in questa forma e accezione è riconducibile a quella preparata dai mitici Monsù, cuochi professionisti di origine francese che hanno indirizzato il corso della cucina siciliana dell’Ottocento e di cui ancora oggi si conservano le ricette. Essi operavano nelle cucine nobili e realizzavano per i loro signori pietanze elaborate, applicando alle materie prime siciliane l’arte raffinata di chi sapeva manipolare e trasformare, da alchimista del cibo, odori e sapori. I Monsù erano soliti accompagnare il pesce, in particolare il capone, ma anche la selvaggina con una cosiddetta “cuonza” agrodolce, che ammorbidiva le carni dure e amalgamava i diversi sapori; essa serviva dunque ad appareiller, cioè a “mettere assieme” cose differenti. Cuonza che, nella traduzione popolare della ricetta, da mero accompagnamento diventava essa stessa portata, con la melanzana che da comprimaria assurgeva al ruolo di protagonista. Oggi la caponata comune, nonostante alcuni ritorni della proteina animale nella proposta gastronomica contemporanea (per esempio il pesce spada), è quella vegetale, senza pesce, la cui memoria potrebbe però essere custodita negli immancabili e caratteristici pinoli. Quest’ultimi, molto diffusi nella cucina siciliana per le loro qualità antisettiche, venivano spesso associati al pesce per scongiurare possibili intossicazioni. Ciò che anche nel presente determina la buona riuscita della caponata dipende però, principalmente, dall’elemento che ne costituisce l’aura, emblematica di quella ricerca d’equilibrio fra sapori contrastanti che distingue tutta la cucina siciliana: quell’agrodolce, già persiano, che non deve mai essere né troppo dolciastro, né troppo “acitusu”.

Ricetta

INGREDIENTI (dosi per 6 persone circa)

  • 1 kg di melanzane (la lunga nera o la lunga violetta)
  • 400 g di sedano (solo gambi)
  • 2 cipolle
  • 200 g di olive verdi
  • 50 g di capperi dissalati
  • 60 g di pinoli
  • 150 g di concentrato di pomodoro (o 250 g di salsa di pomodoro)
  • 70 g di zucchero semolato
  • 1 bicchiere di aceto di vino bianco
  • olio extravergine di oliva
  • basilico
  • sale
Tagliare le melanzane a tocchetti non troppo piccoli, quindi friggerle in abbondante olio e lasciarle sgocciolare bene. Pulire il sedano, tagliarlo anch’esso a tocchetti e sbollentarlo in acqua salata per 5 minuti. Tagliare la cipolla a fette sottili, soffriggerla in padella, quindi aggiungere il sedano sbollentato, le olive verdi denocciolate, i capperi dissalati, i pinoli. Aggiungere il concentrato di pomodoro, lo zucchero, l’aceto e un bicchiere d’acqua. Lasciare cuocere fino a che la salsa non risulti ben legata (almeno 30 minuti). Concludere la preparazione unendo le melanzane fritte in precedenza, lasciandole amalgamare bene. Quindi spegnere e fare riposare per circa due ore. Prima di servirla aggiungere il basilico.